“Mi piaccio solo se piaccio a te!”

Reportage del seminario sul fenomeno del People pleasing

Il 6 Maggio 2023 il nostro sportello Kairòs ha tenuto un seminario gratuito sulla tematica del people pleasing dal titolo “Mi piaccio solo se piaccio a te!”

Vi siete mai interrogati sul desiderio di piacere e compiacere l’altro e sul timore di deluderlo? Sabato pomeriggio abbiamo trascorso piacevolmente due ore insieme parlando di questo e di tanto altro connesso al fenomeno del people pleasing.

Il people pleasing è un fenomeno molto più diffuso di quanto si pensa tanto da essere diventato negli ultimi anni un argomento di tendenza. Per i cosiddetti “accontentatori” (people pleasers), occupare un posto nella società e trovare il proprio posto nel mondo, significa compiacere gli altri e non ha importanza se il sacrificio è quello di calpestare la propria natura, falsificando i propri bisogni e desideri.
Provando a delineare un profilo del cosiddetto people pleaser, è possibile affermare che costui  è un individuo che orienta il proprio agire sul bisogno esagerato di compiacere gli altri, spesso a causa di una scarsa autostima e assertività. Il “compiacente” sente di essere incapace nel porre dei limiti e di venire meno ad eventuali richieste per paura di non essere accettato o di perdere l’approvazione, plasmandosi a seconda di dove si trovi o di chi abbia davanti. La paura di non essere all’altezza, che accompagna il senso di colpa, può assumere forme diverse e con il tempo diventare un’emozione indipendente dal giudizio esterno. L’ansia che accompagna il sentimento di inadeguatezza è indipendente dalle reali capacità della persona, dai successi ottenuti e dai giudizi degli altri, piuttosto sembra essere alimentata dalla presenza di un giudice interno sempre pronto a colpevolizzare la sua vittima, sentenziando su tutto ciò che fa. Queste sono le vittime di quello che Paul Watzlawick definisce come “successo catastrofico”.

Perché la psicoterapia è utile?

  •  Individuando i pensieri ed i modelli disfunzionali che sono alla base di questo disagio, in psicoterapia si prende consapevolezza e si sperimenta un modo differente di stare in relazione con gli altri, più autentico e meno basato sulla richiesta di consenso.
  • La relazione d’aiuto è basata sull’assenza di giudizio, sull’accettazione di sé e dell’altro, risaltando limiti e risorse, e sull’ascolto empatico. Il terapeuta funge da specchio per il paziente e permette di elaborare vissuti ed emozioni che nella sua vita sono alla base del disagio psichico. Dunque, la relazione con il terapeuta rappresenta un modello di relazione positiva che il paziente gradualmente interiorizza e attualizza nelle relazioni esterne.

Proponiamo alcune foto del pomeriggio passato insieme al termine del quale ci siamo salutati con un piccolo rinfresco…il nostro PSYCOAPERITIVO!

Auguriamo a tutti una rilassante e riconciliante pausa estiva. 

Vi aspettiamo a Settembre con importanti novità!!!!

La dipendenza affettiva: che cos’è e da dove origina

La dipendenza affettiva o love addiction è un modo patologico di amare, la si può definire metaforicamente come una fame insaziabile d’amore.

La persona che soffre di dipendenza affettiva vive il partner e la relazione come una droga, di cui non può fare a meno, per riempire vuoti affettivi presenti sin dall’infanzia e regolare le sue emozioni.  

Il manuale dei disturbi mentali DSM-5 (2013) non inserisce la dipendenza affettiva tra i disturbi mentali, riconosce invece il disturbo dipendente di personalità che condivide molti tratti riscontrabili anche in coloro che soffrono di dipendenza affettiva. Tuttavia non possiamo uniformare le due condizioni, poiché la dipendenza affettiva si presenta in comorbidità anche con altri disturbi psicologici, quali la depressione, il disturbo borderline di personalità ed il disturbo narcisistico di personalità. Molte ricerche svolte (Guerreschi, 2011; Ruggiero,Iacone e Fargnoli, 2009) considerano la dipendenza affettiva come un disturbo autonomo e la annoverano tra le new addiction, ovvero quelle forme di dipendenza in cui non viene assunta nessuna sostanza chimica (droga, farmaci, alcol) bensì si diventa dipendenti da un comportamento o nel caso della dipendenza affettiva da una relazione.

Perché si parla in modo specifico di dipendenza?

 Alcuni studiosi tra cui Il gruppo di Raynaud (2006), studiando tale disagio ne hanno individuato i criteri sotto riportati, che possono aiutare nel fare una diagnosi e che accomunano la love addiction alla sintomatologia tipica delle altre dipendenze.

  • Comparsa di una sindrome di astinenza per l’assenza dell’amato, caratterizzata da una significativa sofferenza ed un bisogno compulsivo dell’altro
  • Una considerevole quantità di tempo viene spesa pensando al partner o alla relazione o dedicandosi realmente ad essi
  • Riduzioni di importanti attività sociali, professionali e di svago per dedicarsi alla relazione
  • Persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la propria relazione
  • Impossibilità di chiudere la relazione, nonostante l’esistenza di gravi problemi

La persona dipendente non è in grado di uscire dal rapporto con il partner così come una persona che fa uso di sostanze stupefacenti non riesce a farne a meno. Anche se il dipendente prende consapevolezza del fatto che la relazione non può cambiare, e produce degli effetti negativi su di sé ed in alcuni casi risulta autodistruttiva, non riesce ad interromperla.

Qual è l’Identikit del dipendente affettivo?

La letteratura inquadra tale disturbo come una vocazione tipicamente femminile, tuttavia esistono anche molti uomini che manifestano questo problema.

Tra le caratteristiche del dipendente affettivo troviamo il senso di inadeguatezza sociale, un senso di fragilità personale e la tendenza all’autoannullamento.

Altra caratteristica è la difficoltà di riconoscere i propri bisogni e le proprie emozioni. Queste persone sono molto capaci nel riconoscere le emozioni altrui e di prendersene cura, ma hanno una scarsa capacità nel prendersi cura di se stessi e nel regolare le proprie emozioni.

Un altro aspetto è che queste persone mettono impegno ed energia nell’amare, nel controllare, nell’analizzare l’altro, in modo esclusivo ed eccessivo al fine di ricevere amore ed approvazione e trascurano se stesse e la propria crescita personale. L’altro e la sua presenza divengono fondamentali per poter soddisfare un bisogno immediato di vicinanza e di affetto, e di riconoscimento, evitando la paura di essere abbandonati che domina costantemente nella mente di queste persone.

Inoltre, l’amore per queste persone prende i significati di “sacrificio”, e di “Sfida”. La storia d’amore diventa molte volte una condizione in cui si soffre e ci si sente infelici ed insoddisfatti.

Nella maggior parte delle relazioni dipendenti è presente l’elemento del rifiuto da parte del partner che non ricambia l’amore o non ama abbastanza. Per cui il dipendente intraprende una sfida con se stesso e con l’altro, ovvero la sfida di cambiare il partner e di portarlo ad amare nel modo in cui lui vorrebbe.

Queste relazioni sono come una gabbia, in cui imprigionare se stessi e gli altri. Il mondo esterno diventa una minaccia costante alla relazione ed alla sua stabilità; per questo motivo queste relazioni sono strutturate sulla fusione relazionale, l’isolamento rispetto al mondo esterno e sulla rinuncia all’autonomia reciproca. L’autonomia e la libertà personale sono considerate un fallimento della relazione.

La persona dipendente prende spesso il ruolo di martire nella coppia, di colei che ha una sopportazione infinita e che ha tutta la responsabilità della relazione sulle sue spalle. Si innamora frequentemente di partner problematici, verso i quali assume una posizione salvifica. Questo genera due tipi di reazione emotiva in lei, una legata al senso di colpa, di non poter fare abbastanza per l’altro e per far funzionare la relazione, l’altra legata alla rabbia nei confronti del partner che non ama abbastanza e che non si impegna abbastanza per la relazione.

Tra i dipendenti affettivi possiamo trovare anche le donne che sono vittime di maltrattamenti; in questi casi predomina una sottomissione all’altro legata alla paura e al tentativo di renderlo meno minaccioso. Queste donne hanno una bassa autostima e un’immagine negativa di sé, e talvolta un senso d’inferiorità nei confronti del partner.

Le origini della dipendenza affettiva

Le origini della dipendenza affettiva vanno ricercate nel contesto e nella storia della famiglia d’origine, spesso caratterizzata da esperienza dolorose ed eventi critici, tanto da portare i figli a sviluppare posizioni protettive nei confronti dei genitori ed interiorizzare un modello d’amore “io ti salverò” che diventa disfunzionale nelle relazioni adulte (Gritti, 2018).

Fin da piccolo, il dipendente affettivo impara che per guadagnarsi l’amore e l’attenzione dei genitori deve essere competente nel comprendere le emozioni dell’altro e nel soddisfare i bisogni relazionali; deve imparare a nascondere le proprie difficoltà , ed essere un bravo figlio. Questo produce un doppio effetto, da un lato viene trascurato il proprio mondo interiore incrementando il senso di vuoto, dall’altro si rinforza la convinzione di avere un enorme potere nelle relazioni e di essere capace di guarire il partner. Inoltre, tentare di curare il partner diventa un modo di identificarsi con lui e di curare anche se stessi (Guerreschi, 2011).

Bibliografia

American Psychiatric Association. Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.).Arlington,VA:American Psychiatric Publishing, 2013. Edizione italiana: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina, 2014.

Gritti, M. C. (2018). Dipendiamo. Un trattamento sistemico di gruppo per la cura della dipendenza affettiva. TERAPIA FAMILIARE.

Guerreschi, C. (2011). La dipendenza affettiva. Ma si può morire anche d’amore?: Ma si può morire anche d’amore?. FrancoAngeli.

Ruggiero, G., Iacone, S., & Fargnoli, C. (2009). Schiavo son dei vezzi tuoi. La codipendenza tra clinica e ricerca. Storie e Geografie Familiari2, 56-72.

L’adolescenza “interrotta” ai tempi del Covid-19

Il Lock down ha imposto un sacrificio importante ai nostri adolescenti, che hanno dovuto fare delle rinunce non da poco, come quella alla libertà.

La parola adolescenza deriva dal latino “Adolescere” ovvero crescere. È una fase di transizione della vita che ad oggi si prolunga molto negli anni, poiché i tempi previsti per raggiungere un’indipendenza sia affettiva che economica dalle famiglie, nella società odierna si sono molto dilatati. Dunque due sono a grandi linee i compiti evolutivi di questa fase di ponte dalla vita adulta: trovare sé stesso, iniziare a definire la propria identità, riconoscendo di appartenere ad una determinata famiglia e contesto sociale; dall’altra uscire fuori di casa, esplorare nuove realtà, sperimentarsi in nuove relazioni anche affettive per creare il proprio spazio nel mondo. L’adolescenza è il tempo non solo della sfida ai limiti e alle regole come molti potrebbero credere, bensì è il tempo della paura e dell’insicurezza, e dell’ambivalenza tra il ricercare e il pretendere la propria indipendenza ed il bisogno di dipendere dalla famiglia.

Il Lock down ha imposto un sacrificio importante ai nostri adolescenti, che hanno dovuto fare delle rinunce non da poco, come quella “alla libertà”, al tempo libero trascorso con gli amici, alla scuola intesa come relazioni sociali contenitive. Per alcuni queste non sono state deprivazioni che non hanno lasciato il segno; poiché per alcuni ragazzi il gruppo dei pari e la scuola sono risorse compensative enormi laddove ci sono problematiche e disagi all’interno della famiglia a cui si appartiene. La didattica on line ha svuotato l’apprendimento degli alunni di quel rapporto empatico umano fondamentale per poter consentire la motivazione, l’interesse all’apprendimento e alla cultura e per poter cogliere limiti e risorse. Il corpo, protagonista indiscusso di tante trasformazioni proprie di questa fase evolutiva, costituisce un veicolo fondamentale per la crescita dei nostri ragazzi, e che, purtroppo, con la didattica a distanza viene meno unitamente a tutte le emozioni che di cui si fa portavoce.

Pensando sempre alla scuola, molti ragazzi hanno perso quella ritualità di passaggio che rappresenta l’esame di maturità. Un rito di passaggio ad una fase nuova della vita, che per alcuni rappresenta l’entrata all’università, o l’entrata nel mondo del lavoro. Molti ragazzi scelgono di trasferirsi in un’altra città, di allontanarsi dalla famiglia.

Ogni cambiamento implica una perdita, ogni passaggio da una fase all’altra è carico di incertezze, di rischi rispetto agli esiti e comporta dolore. I riti servono proprio a rendere più gestibili e possibili i cambiamenti.
La maturità chiude la fase della scuola dell’obbligo ed apre la fase del libero arbitro, della scelta secondo le proprie possibilità ed inclinazioni.

“Quanto viene tutelata la libera scelta nel nostro paese?” ma soprattutto restando in materia di COVID; “Quanto le conseguenze sull’economia, sul lavoro hanno leso la progettualità dei nostri adolescenti che si apprestano a salpare verso il mondo dell’università e del lavoro?”
L’ansia vissuta dagli adolescenti che si rivolgono al nostro servizio è tanta e viene alimentata dall’incertezza causata dal momento di blocco e di lenta ripresa che stiamo vivendo, sommandosi ad una fisiologica precarietà propria di questa fase evolutiva. Incertezza che si somma all’incertezza.

“Come possiamo aiutare questi ragazzi che sono il futuro del nostro paese?”

“Come possiamo far si che non perdano la rotta, la speranza e la creatività in un periodo contraddistinto dalla perdita e dalla paura?”
Il consiglio che sentiamo di dare ai genitori è di incoraggiare i movimenti verso l’autonomia dei ragazzi, e condividere le paure e le emozioni negative attraverso lo scambio autentico delle emozioni. Spesso i genitori con cui i siamo interfacciati, si lamentano delle difficoltà comunicative che hanno con i loro figli; si descrivono come dei genitori disponibili ad ascoltare ed a parlare con i figli ma dimenticano che parlare non significa fare il terzo grado ai figli quando rincasano dalla passeggiata con gli amici. Sarebbe più funzionale chiedersi, invece, quanto da genitori siamo realmente abituati a condividere i problemi e le emozioni in famiglia e a cercarne insieme una soluzione con spirito di gruppo; o quanto i figli si sentano in dovere di non parlare, di non condividere i loro problemi, per proteggere la famiglia ed i genitori che sono già in crisi ed in difficoltà. In molte famiglie vige la regola che “i panni sporchi si lavano in casa” o che il dolore individuale ed i problemi bisogna risolverseli da soli. Sono proprio queste regole che adesso più che mai, andrebbero messe in discussione, perché il dolore se condiviso può trasformarsi in risorsa, in forza rinnovata di gruppo.
Chiedere aiuto per un figlio, significa inevitabilmente chiedere aiuto per sé stessi, per la propria coppia ed in genere per la propria famiglia; è questo che ogni genitore dovrebbe ricordare.
Questo periodo ha permesso ai figli e ai genitori di guardarsi più da vicino, di scoprire di più gli uni degli altri. In molte famiglie questo è stato un tempo per ritrovarsi, per fermare la freneticità delle vite e non essere più estranei sotto lo stesso tetto; per molti di loro sarà questa appartenenza ritrovata e rinforzata la forza propulsiva per vincere le paure ed affrontare le frustrazioni della vita che verrà.


AdolescenDay 2020

Le nostre riflessioni, in collaborazione con la Gazzetta del Sud, sugli effetti del lockdown sulla salute mentale degli adolescenti, di come le famiglie si sono riorganizzate, del rischio di un aumento della dispersione scolastica e dei nuovi interventi per supportare i giovani e fare prevenzione.

Ieri, oggi e domani: gli effetti del Coronavirus sulla nostra salute psichica

Cosa c’è da sapere e come affrontare la fine della quarantena?

In questo periodo critico, tanti sono i professionisti della salute fisica e psichica che si sono impegnati ad offrire il proprio contributo, chi in prima linea e chi a distanza, per contrastare questa estenuante battaglia.

Quest’oggi il mio contributo è quello di offrire una riflessione emotiva su questo complesso argomento che richiama l’attenzione globale e che ci impegna a ricordare che “siamo tutti sotto lo stesso cielo”.

“COVID-19: un piccolo organismo invisibile che da un giorno all’altro sta cambiando la nostra percezione della realtà, della vita, stravolgendo l’organizzazione delle nostre esistenze”

Partendo da questa riflessione, un primo aspetto da sottolineare e da non sottovalutare è il concetto di cambiamento. Nonostante la letteratura scientifica affermi come i cambiamenti siano necessari nella nostra vita, alimentando le nostre intrinseche capacità di adattamento, il concetto di cambiamento è un costrutto non facile da decifrare, insidioso, spaventante e destabilizzante. I cambiamenti, seppur positivi, sono pur sempre cambiamenti; rappresentano un’inversione di marcia, una modificazione della prospettiva, e quindi una sferzata nella nostra capacità di percepire, tollerare ed elaborare un evento. Davanti questi accadimenti, ognuno di noi è chiamato a rifornirsi di una serie di armamenti, che non sono altro che quegli strumenti acquisiti durante tutta l’esistenza con cui si sono fronteggiate altre situazioni simili. Tuttavia, non dobbiamo pensare a tali strumenti solo in termini materiali ma, provando a scendere più nel profondo, anche e soprattutto in termini risorse emotive, le quali fanno da corollario alla capacità di ognuno di regolare le proprie emozioni e la propria emotività di fronte ad un evento stressogeno.

Ognuno di noi ha una “finestra di tolleranza”, ovvero dei margini entro i quali stati emozionali di diversa intensità possono essere processati senza che si comprometta il funzionamento del sistema. Questo vuol dire che ci sono persone che riescono a funzionare bene anche quando vivono emozioni molto forti e altre invece che vanno in cortocircuito. Lungi dall’operare una distinzione netta tra persone che funzionano bene e persone che non funzionano, gli eventi stressanti hanno il grande potere di attivare chiunque ne venga investito, con esiti diversificati. 

Quanto detto rispetto alla capacità di regolare le proprie emozioni, ci conduce alla considerazione che quello che sta accadendo oggi, alla nostra società, globalmente considerata, rappresenta un evento di grossa portata dal punto di vista della nostra salute mentale, che ci impegna in diverso modo e su diversi fronti. La parola chiave è quindi “riorganizzarsi”. 

Riorganizzarsi implica sicuramente darsi da fare per rimodulare il nostro stile di vita, le nostre abitudini ben radicate, le nostre esistenze, che se dapprima apparivano ben confezionate e impacchettate secondo i nostri canoni, adesso sono costrette a misurarsi con maggiore tempo libero e quindi con il venir meno di regole e confini. Un tempo che attanaglia, che ci spinge a immaginare un futuro ignoto, che porta a misurarci con l’imprevedibilità e con l’impossibilità di controllo. Se da un lato questo sembra toglierci “potere”; inteso come possibilità di incidere attivamente sulla propria vita, privandoci della libertà personale, dall’altro lato, se ci soffermiamo un attimo a pensare, il rovescio della medaglia è sorprendente. Il termine riorganizzazione implica il concetto di ridefinizione, che offre la possibilità per ciascuno di mettersi in gioco, provando a usare questo tempo in modo “altro”.

Pertanto, l’invito è a ridefinire il proprio tempo; non solo quello cronologico che scandisce le nostre giornate, ma anche un tempo interno, interiore, intimo e personale. Quel tempo che ci costringe a confrontarci con la nostra parte in ombra, con i nostri scheletri e con le nostre fragilità. Fragilità che spesso vengono occultate, distaccate, straziate dal resto della nostra coscienza, ma che fanno parte di noi. Prendere contatto e riappropriarsi della parte più “oscura” , meno riconosciuta e riconoscibile, può offrire la possibilità di operare una definizione di quello che sta accadendo, una definizione che forse si scosta da quella dei notiziari, ma che è portatrice di un valore emotivo e profondo, specchio del proprio sentire. Facendo ciò, è come se operassimo una pacificazione tra  due parti di noi che non sono scollate, ma che possono guardarsi in faccia e che piano piano possono prendere accordi per integrarsi. L’invito è a guardare all’isolamento sociale in questa prospettiva, come un maggiore tempo da dedicare a sé, alla cura delle proprie parti interne, alla cura della propria anima, straziata da angoscia, dolore e preoccupazione. In quest’ottica, riappropriarsi di un tempo interno (inteso come Kairòs, ovvero un tempo in divenire in cui si esplica la possibilità di agire), significa anche divenire più autoefficaci, costruttori attivi del proprio tempo e delle proprie scelte, ma anche riscoprire vecchi interessi, riprendere contatto con vecchie conoscenze, riprendere ciò che si era stati costretti a lasciare in sospeso (ad esempio riscoprirsi dei pittori o dei musicisti, cuochi o pasticceri esperti, o semplicemente riscoprirsi protettori e protettrici dei propri focolari domestici). Nutrire, dunque, quelle parti di noi che più di ogni altra cosa in questo momento hanno bisogno di essere “viste” e accolte. Questi sono gli aspetti positivi e potenzialmente protettivi della quarantena che stiamo vivendo, aspetti di cui possiamo diventare portavoci, cercando di “passare il messaggio” ai nostri figli, alle nuove generazioni e a tutti coloro che sono in balia di questa grande nave colpita dalla tempesta.

Tuttavia, cogliere queste sfumature risulta più difficile per chi  viene privato di qualsiasi possibilità di riorganizzazione e ridefinizione. Mi riferisco a chi subisce una doppia costrizione, chi subisce l’isolamento e subisce anche una convivenza forzata , alienante e quindi maggiormente distruttiva. E’ il caso delle famiglie e delle coppie altamente conflittuali, costrette a vivere dentro mura domestiche intonacate da violenza e coercizione. In queste famiglie si esasperano i sentimenti di tristezza, mancanza, solitudine che questo periodo porta con sé, con il rischio che l’alienazione, accompagnata spesso da sintomi depressivi e alessitimici, si irrigidisca fino a cronicizzarsi, determinando il destino futuro di quel sistema familiare. Talvolta non mancano gli esiti irreversibili di tali dinamiche conflittuali, come il caso di femminicidi ed omicidi che hanno per movente la gelosia e che riflettono legami di coppia “ingabbianti” e vincolanti. 

Questa riflessione si accompagna ad un’altra sui possibili effetti a posteriori della quarantena. C’è chi dice che saranno peggiori di quelli che stiamo vivendo e chi dice che saranno migliori, perchè ci porteranno ad apprezzare maggiormente ciò che abbiamo e quello che avevamo e che forse abbiamo perso. Considerata la continua evoluzione di questa situazione che, se pensate, va a braccetto con l’evoluzione della nostra specie, non è possibile fornire una risposta certa; tuttavia, è importante fare tesoro del momento presente, delle emozioni negative che stiamo sperimentando, della possibilità di ridefinire positivamente questo tempo esistenziale che non è ancora giunto al termine. Tutto ciò forse aprirà degli spazi mentali in cui sarà possibile pensarsi all’interno di un setting terapeutico, all’interno di una relazione di aiuto e cura, in cui la cooperazione e la relazione torneranno a funzionare, sprigionando le loro potenzialità benefiche. Con la possibilità che il modello di relazione terapeutica possa fungere da ponte per le nuove relazioni, per quelle vecchie e per una buona e autentica relazione con sé stessi.

Per concludere riporto un breve stralcio della preghiera di Papa Francesco, recitata in una San Pietro deserta: “Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo trovati su una stessa barca fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari, chiamati a remare insieme e a confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti. E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme. Nessuno si salva da solo”

Il corpo come specchio della psiche

Come riconoscere i segnali di sofferenza psichica inviati dal nostro corpo?

Molto spesso capita di sentire utilizzare la frase “gli occhi sono lo specchio dell’anima” per descrivere quanto lo sguardo sia in corrispondenza diretta con la parte più profonda di una persona, con ciò che spesso non trova espressione tramite il canale verbale o che non può essere detto perchè troppo intimo. Se ci si sofferma un attimo a pensare a questa espressione, ciò che emerge è come in essa vi sia sintetizzata la relazione che esiste tra il corpo e la mente, il soma e la psiche. Eppure, nonostante tale proverbio sia pane quotidiano di molti, risulta difficile capire la relazione che esiste tra le due e quanto essa si manifesti quotidianamente nella vita di ciascuno di noi.

Per molti un mal di testa o un mal di pancia sono semplicemente causati da una perdita di sonno o da un’indigestione. In questi casi il rimedio migliore è andare dal proprio medico o in farmacia per richiedere un antidolorifico o un protettore gastrico, mandare giù la pasticca e aspettare che il dolore passi. Ma quando il sintomo perdura che si fa? Forse il nostro corpo sta inviando dei segnali di altro tipo che non riusciamo a decifrare. Forse stiamo “somatizzando” un disagio che non riguarda solo ed esclusivamente il corpo, ma anche la nostra psiche.

Che cosa significa somatizzazione? Somatizzare significa convertire un disagio psichico in un disagio fisico, dare forma attraverso il corpo ad una sofferenza psicologica che logora dall’interno.

I sintomi di somatizzazione si collocano nell’intersezione tra le due dimensioni che caratterizzano ogni essere umano: la psiche ed il soma, la cui non integrazione genera un disagio che si può manifestare sia a livello psichico che fisico. Questi sintomi, spesso, prendono il sopravvento in situazione di stress, quando ci mettiamo nella condizione di dover richiedere al nostro corpo uno sforzo eccedente le nostre risorse. Un incarico di lavoro importante, il lutto di una persona cara, una relazione insoddisfacente, sono tutte condizioni che richiedono un enorme dispendio di energie non solo fisiche ma anche psichiche ed emotive, che determinano un vera e propria rivoluzione copernicana. L’equilibrio fisico-psichico fino a quel momento raggiunto viene minato ed il risultato è una dissociazione del corpo dalla mente, venendo meno l’integrazione psiche-soma. Se mi concentro a dare il massimo sul lavoro, chiedendo al mio corpo di farcela ad ogni costo, come posso ascoltare la mia psiche? E se ,invece, mi ritiro emotivamente nella mia testa, come faccio a sentire i segnali provenienti dallo stomaco e capire che il mio corpo mi sta parlando?

Comprendere l’importanza di mettere in comunicazione e in relazione queste due parti non è cosa facile, anzi può sembrare un’operazione quasi impossibile. Tuttavia, ritrovarsi significa proprio questo; ritrovare il proprio centro. Rivolgersi ad un professionista del benessere psicologico rappresenta un tentativo di comprendere come riconoscere queste due parti e imparare a metterle in comunicazione, perchè le due parti della mela possano formare l’intero.

Chi è lo psicologo?

Facciamo un pò di chiarezza

Quanti di voi avranno pronunciato nella propria vita le frasi: “Mi tocca fare un po’ lo psicologo a casa mia …”; “Sono anche io un po’ psicologo, perché mi capita di ascoltare continuamente i problemi altrui”.

Quanti di voi però saprebbero dare una risposta precisa alla domanda: “Chi è lo psicologo e di cosa si occupa?”, senza incappare in qualche piccolo dubbio a riguardo …

Con questo articolo proveremo a fare a grandi linee un po’ di chiarezza sulla professione dello psicologo clinico e sulle sue aree di intervento.

Lo psicologo iscritto all’albo della sua categoria, esercita una professione sanitaria, fa parte cioè di quei professionisti della sanità pubblica o privata come medici, infermieri, tecnici di laboratorio e cosi via.

Dunque, lo psicologo si occupa della prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione oltre che delle attività di ricerca e didattica nell’ambito della psicologia. Lo psicologo compie interventi di prevenzione del disagio psichico, promozione della salute psicologica, e di cura dei disturbi mentali e dei problemi relazionali.

Lo psicologo promuove il benessere psicofisico delle persone, della coppia e della famiglia e degli organismi sociali, occupandosi non solo di psicopatologia ma anche di moltissime situazioni relazionali in cui gli esseri umani si trovano a vivere ed esprimere una condizione di sofferenza e di disagio.

Mi piace pensare allo psicologo con la metafora di colui che sostiene e tiene per mano le persone nel loro momento di crisi e le accompagna verso un cambiamento in positivo, sollecitandole a riscoprire ed attivare nuove risorse interne ed esterne per riorganizzarsi ed adattarsi alla vita.

In molti hanno ancora dei dubbi su come la terapia della parola possa cambiare la nostra vita. Eppure basterebbe riflettere su quanto ogni relazione, da quella con i genitori, a quella con un amico, un professore, un compagno ci possano e ci abbiano cambiato nel bene e nel male, rendendoci quel che siamo oggi, per capire quanto possa essere efficace e riparativa la relazione con un professionista della salute mentale.

Ad ogni modo, per i più scettici esiste una gran mole di ricerche scientifiche che attestano l’efficacia e gli effetti degli interventi psicologici in svariati campi della salute psicofisica. La scienza ci informa persino su come la psicoterapia può cambiare il funzionamento dei nostri circuiti neuronali.

Alla base di ogni intervento psicologico ci sono due parole chiave “Cambiamento ed Evoluzione”.

Evolversi, significa non restare fermi ed appropriarsi delle proprie capacità decisionali, diventando attori della propria vita. Evolversi significa riuscire ad affrontare i propri dolori e le proprie sofferenze, sfruttando il momento di crisi per crescere ed uscire dal tunnel dell’impotenza.

Credo che chiedere aiuto sia il primo e più importante atto di coraggio che una persona possa fare.  

I mille volti della violenza nelle relazioni di coppia

La violenza nella relazioni di coppia è un fenomeno che merita una costante attenzione e riflessione, in quanto le pagine di cronaca pullulano di notizie che raccontano episodi di violenza. Ma come siamo abituati a pensare alla violenza? Di solito ci chiediamo che cos’è che la scatena? Nell’immaginario comune gli episodi di violenza vengono interpretati come improvvisi, dettati da un raptus impossibile da controllare o prevedere. Meno comune risulta invece pensare la violenza come come lo step finale di un processo in cui il conflitto, già presente nella relazione, viene agito in modo distruttivo, in un’ottica circolare in cui quest’ultimo, in qualità di protagonista assoluto, continua a presenziare sulla scena.

Uno dei modi di pensare alla coppia è quello di pensare a due persone che hanno scelto di stare insieme perché fortemente innamorate l’uno dell’altro; protagonisti di una favola dall’epilogo “e vissero per sempre felici e contenti”. All’interno di questa atmosfera magica non c’è posto per il conflitto, elemento dal potere minatorio da combattere e distruggere. Tuttavia, quando si ritorna alla realtá, la coppia può essere chiamata a confrontarsi con momenti di tensione che fanno parte del ciclo di vita. Come si organizza la coppia rispetto ai momenti di crisi? Spesso si considera il conflitto come un elemento disgregante la coppia, o, cosa ben peggiore, non lo si considera affatto come scenario possibile all’interno di una relazione. Di fronte questa condizione sono due le possibilità quando la coppia vive un momento di tensione: da una parte, il conflitto può essere portato alla luce da uno dei due partner, che, angosciato e destabilizzato, può esasperare il conflitto stesso; dall’altra, invece, lo scenario opposto, il conflitto non viene riconosciuto o esplicitato, rimane sopito e lavora sotto la relazione, andando a minarne le basi. Entrambe queste possibilità non fanno altro che ingigantire il conflitto, rendendolo giorno dopo giorno un elemento che si fa spazio all’interno della relazione, andare a coabitare con la coppia.

Ma quando il conflitto può trasformarsi in violenza? E’ doveroso fare una distinzione tra l’uno e l’altra. Il conflitto fa parte della vita e della relazione, non ha in sé un’accezione negativa o positiva; è la coppia che gli conferisce il potere di diventare un elemento di disgregazione o piuttosto di cambiamento positivo. La violenza, invece, è tutt’altro. Etimologicamente il termine violenza deriva dal latino violare, ovvero contaminare, invadere. Quando il conflitto si tinteggia di aggressività e prevaricazione può trasformarsi in violenza. Un’azione violenta è un’azione che ha lo scopo di annullare l’altro o distruggere una parte di lui. All’interno di relazioni connotate da violenza il desiderio di far scomparire e annullare l’altro risulta prioritario rispetto al desiderio di dialogo e confronto.

Le coppie “violente” sono quelle che si organizzano secondo modalità gerarchiche, dando origine a relazioni di dominanza e sottomissione, in cui si verifica una vera e propria invasione degli spazi fisici ed emotivi dell’altro. Sono coppie incastrate rigidamente in una dinamica da cui non riescono ad uscire e che rende la violenza invisibile e quasi naturale all’interno della relazione. Uno studio di Bartholomew e colleghi del 2001 ha evidenziato che sesso le relazioni più disfunzionali sono paradossalmente quelle più stabili. Ciò che dà nutrimento alla relazione non è altro che la violenza, che si nutre di altra violenza, e così via, dando vita ad un circolo vizioso e perverso che spesso prende pieghe tragiche e irreversibili.

La violenza dunque assume un carattere totalizzante, riflettendo, a seconda di come la si guardi, varie facce che fanno parte della stessa medaglia. Esistono varie forme di violenza, quella fisica, quella psicologica, quella intrafamiliare, quella economica. Tutte sono caratterizzate dalla stessa identica cornice: il desiderio perverso di avere il controllo sull’altro, assoggettandolo.

Si potrebbe pensare che sia facile uscire da una relazione violenta; basterebbe dire semplicemente BASTA, lasciare il partner, prendere in mano la propria vita e ricominciare. Ma ricominciare da dove? La violenza porta con sé la disconferma e la squalificazione, aspetti che si attaccano addosso come delle etichette e che difficilmente abbandonano la persona vittima di violenza.

In conclusione, una via possibile, da percorrere con pazienza sarebbe quella di darsi la possibilità di trovare uno spazio protetto in cui potersi pensare in maniera diversa da quell’immagine deforme che qualcun altro ci ha cucito addosso; in altre parole, darsi la possibilità di sperimentare una relazione di fiducia in cui potersi riappropriare della propria individualità.

“La violenza non risolve i conflitti, e nemmeno diminuisce le loro drammatiche conseguenze”

Papa Giovanni Paolo II

Famiglie resilienti

Quali sono le caratteristiche ?

“Resilienza” un termine iper usato da pochi anni nel gergo comune.

Generalmente lo si usa per connotare tutte le persone che non si arrendono di fronte alle difficoltà ed anziché soccombere escono dalle crisi con una marcia in più.

Resilienza è la capacità di trasformare le crisi in opportunità.

Froma Whalsh, psicoterapeuta americana, esperta di resilienza familiare, suggerisce che i resilienti sono quelli che sono in grado di saltare in avanti. Infatti, si è resilienti non se si esce indenni da una battaglia, senza graffi e ferite, e nemmeno se dopo un uragano che ci ha spazzato via la casa ne ricostruiamo un’altra identica.

Uso un linguaggio metaforico, per dire che si è resilienti se si ha il coraggio di cambiare.

“Resilienti si nasce o si diventa?”

Domanda tra le più gettonate, che ci apre la riflessione sulla resilienza non come caratteristica esclusiva del singolo individuo ma come caratteristica relazionale, e del gruppo a cui da sempre apparteniamo, la nostra famiglia.

Si è resilienti, perché si vive in una famiglia resiliente.

“Cosa contraddistingue le famiglie resilienti da quelle che non possono definirsi tali?”

Abbiamo individuato alcune caratteristiche chiave:

  • Le famiglie resilienti hanno un modo di comunicare chiaro. I membri di queste famiglie sono capaci di esprimere ciascuno i propri pensieri ed aspettative sull’altro. Condividere informazioni in modo chiaro nei momenti di crisi, è un fattore enormemente importante, perché aiuta a gestire le emozioni negative e ad organizzare l’azione di risoluzione dei problemi. Tanto è vero che negli interventi psicologici dopo un evento catastrofico e traumatico (es, terremoto) si usa la tecnica chiamata debriefing, in cui si organizzano dei gruppi per parlare dell’evento avvenuto e condividere informazioni.
  • Le famiglie resilienti hanno un’organizzazione flessibile e coesa. Hanno la capacità di adattarsi al contesto e di rimanere uniti. Il supporto degli altri è una vera ancora di salvezza nei momenti difficili.
  • Le famiglie resilienti hanno sistemi di credenze facilitanti e non limitanti. Le credenze (valori, pregiudizi, informazioni, atteggiamenti) possono essere facilitanti, nel senso di aprire a tante possibilità di risoluzione di un problema oppure limitanti, ovvero che contribuiscono ad esacerbare la situazione di crisi.

Un esempio di credenza facilitante può essere “non bisogna mai arrendersi di fronte alle difficoltà”. Ma non tutte le credenze hanno valore facilitante in ogni occasione. Ad esempio la credenza suddetta, potrebbe risultare svantaggiosa, nel caso una famiglia si trovi ad affrontare una situazione in cui non ci sono soluzioni, ad esempio una malattia grave di un membro con nessuna speranza di sopravvivenza.

Per concludere, la resilienza è qualcosa che possiamo condividere, scambiare, acquisire in qualsiasi momento della nostra vita e un forte contributo è dato dalle relazioni che instauriamo all’interno della nostra famiglia. Gli uomini trovano un nuovo ingegno e nuove risorse, quando la situazione lo richiede.